Salvatore Lovaglio
Salvatore Lovaglio nasce a Troia (FG) nel 1947. Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Foggia inizia l’attività artistica nei primi anni Settanta, epoca in cui si trasferisce in Lombardia e insegna al Liceo Artistico di Busto Arsizio. La prima esperienza di Lovaglio si colloca in un’area informale, in cui si evidenzia subito un interesse primario per la forma, a cui non è estranea una forte volontà di superare gli anni della formazione “tradizionale” ricevuta all’ Istituto d’Arte di Cerignola. In quest’adesione anche “concettuale” al paradigma informale, la pittura diventa per Lovaglio un linguaggio che attraverso la scarnificazione della forma, deprivata progressivamente del colore, arriva all’identificazione di un ‘essenza fondamentale, colta nella composizione dei ritmi, nella contiguità dei perimetri delle sagome, negli accordi segreti della materia. L’armonia delle “Impronte”, una serie di carte del 1976, il rigore compositivo di “Riflessi” o di “Ritmi”, opere dello stesso anno, indiziano una ricerca impostata “oltre” la superficie delle cose, un sentire “scabro ed essenziale”, come nelle parole di Eugenio Montale, che contiene già la ratio che ispirerà i più maturi “Paesaggi”. L’esperienza lombarda, durata quasi dieci anni, incide profondamente nel lavoro di Lovaglio, sia per l’impegno in senso sociale del gruppo di artisti di cui fa parte e con cui partecipa a numerose mostre in spazi pubblici, sia per il continuo confronto con il cuore pulsante dell’arte europea . Dal 1978 cominciano ad apparire sulle tele rade figure umane, dapprima la serie degli “Amanti” e poi le “Figure”. Gli “Amanti” sono un tirocinio di cose già vissute, grovigli di emozioni che ritrovano una forma nello spazio figurativo, in cui gli echi della pittura di Bacon si sviluppano in vibranti variazioni tonali: i colori sabbiosi, privi di sostanza cromatica, divengono in seguito una costante che attraversa tutta la produzione di Lovaglio. Le “Figure” invece emergono da uno spazio spoglio ridotto ad elementi minimi, sagome allungate di ascendenza giacomettiana, che sembrano ancora tradurre il principio di azzeramento del passato che fonda la precedente poetica informale: uno studio della significanza della forma-figura nello spazio, in cui, come commenta Massimo Bignardi, “l’interesse resta ancorato ad un sistema che si fonda sulle capacità dell’immagine a comunicare ”. Emerge in questa fase un’ostinazione a credere ancora nella pittura e nei valori di cui essa si nutre, che porterà alla metà del decennio successivo, alla svolta dei “Paesaggi”. Nei primi anni Ottanta le figure si riducono a teste oblunghe che si inseriscono in uno sfondo non totalmente azzerato: è sempre presente un “varco” (ritorna alla mente un’ altra citazione montaliana), che l’ ultima delle “Teste” figurative, dipinta nel 1985, affronta quasi con un fremito, un varco che reca già l’impronta delle seguenti “Idee di paesaggio”. Il ritorno in Puglia, avvenuto nello stesso anno, muta radicalmente i modi della pittura di Lovaglio, ma non ne scalfisce la coerenza interiore, la ricerca della sintesi, la concentrazione degli elementi intesa nel senso dell’ astrazione della forma. Così il fitto intreccio di geometrie cromatiche dei campi della Capitanata e l’esperienza forte del nero delle stoppie bruciate riportano Lovaglio all’ intenso rapporto con la materia del periodo informale: i vasti paesaggi aspri ed essenziali invadono la superficie sopprimendo l’ orizzonte, le trame fitte rimandano a sofferte forme interiori. Il colore acceso delle prime opere della serie, così come l’accento figurativo del grande “Paesaggio dauno” del 1986, si spegne progressivamente nella sovrapposizione delle stesure, fino all’azzeramento cromatico: Lovaglio non guarda la superficie delle cose, scava nella sostanza della materia portando alla luce il “paesaggio” del vissuto personale. Il sentiero che compare nei “Paesaggi” della fine degli anni Ottanta si incunea nello spazio con una sua propria indipendenza formale, riecheggia l’apparizione delle figure delle opere precedenti, quasi un “perturbante” emotivo del denso coacervo di materia. Nelle “Idee di paesaggio” degli ultimi anni il sentiero bianco si assottiglia, lasciando il posto al progressivo dominare del nero che fagocita la superficie, risucchiandola all’interno della materia; un nero visto in tutte le qualità di luce ed assorbenza, di addensamenti magmatici o di sovrapposizioni di forme appena percettibili. Lovaglio estremizza il processo di riduzione, espandendo il nero, che non è colore o negazione cromatica, bensì materia combusta che riassume in sé la sintesi della forma. Su di un altro versante si collocano gli interventi in spazi pubblici, iniziati nel 1985 con la collaborazione con Franco Fossa per la realizzazione del Monumento alle Vittime sul lavoro a Busto Arsizio: l’interesse per la scultura in Lovaglio non è primario, ma deriva dall’ impegno sociale e dalla predilezione per le tematiche della forma. Questi presupposti si estrinsecano nel desiderio di intervenire sull’ambiente urbano, di incidere nella vita della città: in tal senso si pone il progetto per una colonna in bronzo per la città di Lucera in cui si condensa il concetto del monumento, inteso nel senso latino del termine, simbolo del valore sociale della memoria storica. Analogamente la scultura realizzata in mattoni per la mostra “Architetture delle fornaci” nel 1998 sintetizza l’esperienza dello spazio e della storia in un’ “opera aperta” in cui si realizza il “rito del fuoco “: l’incendio delle stoppie all’interno della struttura ne completa il valore semantico e ricostruisce l’evento da cui traggono origine le forme e gli accordi dei “Paesaggi” . Nel decennio seguente, in cui le grandi superfici monocrome si espandono fino a divenire quasi “solenni”, si susseguono le partecipazioni a moltissime mostre, culminate nel 2011 nella presenza alla 54ª Biennale di Venezia - Padiglione Italia a Torino (Palazzo Delle Esposizioni- Sala Nervi) e nell’Antologica del 2017 a Foggia, patrocinata dalla Fondazione dei Monti Uniti. Negli ultimi anni Lovaglio è tornato alla scultura monumentale, realizzando la “Porta del Cielo” nel Parco Sculture di Ripe di San Ginesio e il San Giusto a Borgo San Giusto di Lucera e infine, soprattutto, la statua equestre in bronzo di Re Manfredi voluta nel 2015 dal Comune di Manfredonia: un’opera straordinaria nella fusione di passato e presente, tra l’iconografia tradizionale della statua equestre e una fluidità, a tratti impressionistica, della figura, che la determina e la definisce come assolutamente contemporanea.
Scheda biografica a cura di Luciana Cataldo
[ 2019 ]
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